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tó, gridando come un'aquila, disse per le budella di satanasso, che anch'io sono avvelenato. oimè, ch'io no tornerò mai in me, e stramazzando in terra e gridando e mordendosi la lingua e le dita, fece tale trambusto che di breve tutto il mondo era tratto e traeva. si fa grumo, e le risa son grandi. Che è questo? che fatto è _questo? Chi diceva : a me pare che dica del capo mi doglio tal altro piano che non si levi polvere. e un altro: avrebbegli la donna fatto fallo? e un altro: non ha egli ragione, che la vede prégna e non sa di cui? A questa voce più che mai si scosse e saltò in piedi, e pressò nel mucchio per dar una pesca duracina a chi aveali detta questa villania, e, non potendo, dato di piglio alla forcina dà di qua dà di là in una scancerìa tra bicchieri ed orciuoli per forma e per modo, che di cento ne fece mille. Da capo si rassegna in terra, grida con quanto n' à in gola, e torna tutta la corte di Ninferno, e le budella del diavolo a bestemmiare. In questo stante giunse la sua donna, la quale vedutolo in quella forma, avvisando che fosse briaco, gli disse: marito, se' tu per motteggiare ? è bianco, o vermiglio quello che favella? quando ti sarà uscito del capo ne parleremo. E Guido: sozza troia, che maledetto sia il dì, ch' io ti sposai in moglie: innanzi ch'io muoia ti farò bene assapere che bianco e vermiglio è questo. Dice la donna: io non so che tu ti beli. Allora Guido in fe del creatore, troia fastidiosa, tu per non esser venuta di buon'otta qui, se' la cagione della mia morte. Dice la donna di tu a me? Anche dico alla merda dell'asino. E tu con cotesta ti favella, rispose la donna. Guido s'inalbera, le corre addosso, e si studia a 'ngoffare. dà di qua, da di là, eccoti Guido in terra, e la gente addossogli, ed egli dà, dà, e dà fin che l'ha rotta, rompendosi egli tuttavia le mane. A' tu il farnetico, disse uno degli astanti? che tu sia morto a ghiado! anzi tu; anzi tu; e così ragionando di parole in parole vennono in una nuova quistione; e vanno l'un contra l'altro per darsi: ma un altro in questo mentre, per terminare tanto scandalo, per di rietro gli dislaccia le brache, e quelle giù a un tratto, e Guido sconcacando dà cotal cimbottolo in terra, che fu a un pelo per non dinoccolare. Allora lo chiudono forte, ed e' sofhando come un porco fedito, invoca san Battacchio. A cotanto rovinio trasser quivi Meo Nuti, e il Melchiori, che come videro Guido a serpentare, dissero lascia oggimai andare queste cose, non te ne combatter più, che la beffa

è terminata; e raccontarono com'era avvenuta. Saputo che Guido ebbe il convenente del fatto, per la rabbia e per Ja vergogna, gli si arrovesciarono gli occhi per modo, che pareano foderati di scarlatto, e volea correr addosso al. Melchiori, ma fu trattenuto. Donna Cecca voleva anchessa far le sue, ma non le fu permesso, e dissele il Melchiori: tu se' savia, e 'l mondo è grande; ed ella: io credo, che tu sie una gran forca, e che questo sia di giudaico per me; deh sventurata, che sono! e si mise forte a lagrimare. In quello stante sopravvenne prete Meo Nigi contato a drieto, il qual loro disse: Come va ? come sta? che tafferugli son questi? di che contendete voi? Contendiamo così e così. ond'e' soggiunse: può fare ! quod est magnum mirum: il meglio ci sia è, che la finiamo con un pranzo, al quale ci sarò anch'io. Utinam domine rispose il Melchiori; e tutti ad una boce s'intromisero a terminar questa lite. la Cecca non volea, alla fine per paura che si ricominciasse a sonar le nacchere, le convenne volere, perchè Guido le disse per certo ciò ch' io ho fatto fin qui ti parrà latte e mele; che io ti governerò sì, che non sarai mai da vedere, se non metterai il cervello a partito; onde fatta buona compagnia, e rasciutte le lagrime, s'acconciò il Melchiori a spendere tre ducati per pranzare con Guido, colla Cecca, col Nuti, e con prete Meo moccicone, e in mezzo a' bicchieri rimasero in concordia e giulianza,

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E questa è la novella, o mio caro Clementino, che per punto e per segno ieri l'altro mi à raccontata prete Filippo nostro Parrocchiano, la quale tu leggerai forse con maggior amore, che io non l'ho scritta; da che imparerai, che le beffe troppo risentite, come questa, ingenerano per lo più discordie, nimicizie cordiali, quistioni indiavolate, e talora ammazzamenti. Non occorre, che più oltre ti dica, perche tu

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Se' savio, e intendi me' ch'i' non ragiono. Continua frattanto a studiare nel Boccaccio, e nel Sacchetti, non dimenticando però gli altri nostri bravi novellatori, e specialmente il Firenzuola e il Lasca, e poi spermentati a novellare, e avrai da costoro tutte quelle grazie della favella, che in siffatti componimenti si ricercano. Sta sano.

SONETTO DI Jacopo VITTORELLI (1),

AL CONS, GIUSEPPE BOMBARDINI,

Quand' io più non sarò, quando la cruda
Nuova ti giunga, che l'amico è spente,
Sulle rapide corri ale del vento,

Nè l'ambascia t'arresti, e mi deluda.
Corri, e intuona, o GIUSEPPE, in sulla nuda
Spoglia silenziosa il tuo lamento;

Poi guidala al vigneto (u' spesso io tento
I bei fasti materni), e là si chiuda.
Là del suo vate e di conforto priva

Pende la cetra, e invita ogni racemo
A plorar sull'addio che mi partiva,
E mentre il ciel si schiude, e ľ aure io
premo,
Battine i fili, e manda alla gran Diva
In quel resto di suon l'uffizio estremo,

'Traduzione dell' ab. Trivellato,

Quum vitae mihi finis erit, quum funus amici
Nunciet, heu! Joseph, squalida fama tibi,
Ah! te non ingens remoretur, nec mea fallat
Vota dolor: venti praepetis instar ades.
Promptus ades, nudumque super, tacitumque cadaver
Lugubres tenera praecine voce modos.
Hinc pete vinetum, (pulcros ubi dicere fastus

Mos mihi maternos), atque ibi membra tege,
Pendet ibi sine vate lyra, invitatque racemos
Flebilis usque meum congemuisse vale.

Dumque ego cedentes, novus incolą, tollor in auras,
Et mihi caelorum panditur alma domus,

Tu doctus pia fila cie, Divaeque potenti
Ultima supremo munia redde sono,

(1) Finchè ci arrivi un elaborato art. sopra la nuova edizione delle Rime edite ed inedite del Vittorelli, e della traduzione latina di esse eseguita sì felicemente dall' ab. Trivellato (vedi il N. XLVII. face. 276) riportiamo questi due sonetti, e le traduzioni di essi.

RISPOSTA DI GIUSEPPE BOMBARDINÍ?·

L'intero gregge mio possa da cruda
Immedicabil febbre essermi spento;
A mezza state grandinoso vento
Sgomini il campo, e i sudor miei deludaj
Questa capanna depredata e nuda

A un tratto sia; ch' io non farò lamento Purchè, se co' miei prieghi allungar tento Tua vita, a' prieghi il ciel la via non chiuda Oh! se di te la rea falce mi priva,

Languir tosto dovrò, quasi racemo
Che dal suo tralcio il villanel partiva.
Orestati con meco, o al suol ch'io premo
Tolgami la pietà della gran Diva,
E m' indirizzi.sul tuo volo estremo.

TRADUZIONE DEL DOTT. P. S.

Saeva, Jacob, febris nulla medicabilis arte
Omnes, quas servo, depopuletur oves;
Aestate in media terat arva, annique laboremi
Fallat praecipiti concita grando noto;
Occupet hanc tegetem praedo, sit cuncta supellex
Parvo rapta lari, non querar usque tamen;
Si dum curo tuam precibus producere vitam,
Panditur ad nostras janua summa preces.
Heu! si raptus obis, languescam more racemi,
Quem secat a tenero palmite ruricola.
Vive mihi, vel Diva potens, tellure relicta,
Me super astra, volans qua salis ipse, vehat.

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Vile umana grandezza, a che mi tenti?

A che uno scettro, a che mi mostri un trono?
E m' inviti a salirlo, e mi rammenti
L'inclito sangue di che nato iọ sond.

Misero onor de' miseri potenti,

Tu fai gran rombo, ma non sei che un suonoj

D'odii cinta, d'affanni e tradimenti,
Vile umana grandezza, io ti abbandono,
Cost disse il Gonzaga, e in manto abbietto

Corse in braccio a Gesù, vinse la guerra
Che il mondan fasto gli destava in petto,
Oh fortunato! Che di santo zelo

Fervido il cor, si fe' pusillo in terra
Per farsi grande e glorioso in cielo.

NECROLOGIA di Stefano ACONZIO KOVER.

Stefano Aconzio Kover nacque nella città di s. Niccola in Transilvania, da antica ed illustre famiglia, l'anno 1740. Sino da' primi anni venne coltivato nello studio delle buone lettere e delle lingue, e nelle une e nelle altre gli avanzamenti che faceva rapidissimi, andavano di pari passo con quelli nella pietà. Ondeggiava il suo animo incerto sulla scelta del genere di vita che condurrebbe, quando gli avvenne udire un figliuolo del grande abate Mechitar parlare de' pericoli, onde va ripieno il mondo. Quel dire fu così efficace presso di lui, che pensò ritirarsi nella soli tudine del chiostro. Molto gli convenne faticare prima che potesse conseguirne da' suoi la permissione: la quale ottenuta, fu condotto l'anno 1757 nel Monastero di santo Lazzaro in Venezia. La molta scienza, di che prestamente si arricchi, unita a' modi più composti e soavi, lo rendette degno di essere eletto maestro de' Novizii dell' Ordine, quando non era che presso il trigesim' anno di età. La maniera che teneva con quelli fu propiamente la maniera che aveano i Santi e si poteva dire che in lui avevano sempre presente la legge. Ma non contento d'informarli alla religiosa pietà, amava di rendergli eziandio dotti nella letteratura e nelle scienze, saggiamente persuaso al monaco de' nostri giorni essere necessario che la dottrina lo abbia ad occupare. E amando egli che i suoi giovani avessero a conoscere la purità della lingua aicana e le figure dell' arte del dire, scrisse e pubblicò una Rettorica, la quale si riguardò siccome lo scritto migliore che dal secolo XIV. in poi potesse additare la sua nazione. Ma nulla curando il Kover delle lodi che da ogni parte gli venivano, più pensava alla gravità dell' officio che sosteneva, amando con affetto veramente paterno i figliuoli che gli erano affidati,

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