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BRANO DI LETTERA DEL DOTTORE PIER-ALESSANDRŐ PARAVIA ALL' ILLUSTRE SIG. CO. LIONARDO TRISSINO.

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Io mi vo ora leggendo i dialoghi del nostro P. Cesari sopra le bellezze della divina commedia ; e veramente mi pajono eccellente cosa, si perché adempiono egregiamente al loro ufficio, che è quello di metterci ben dentro nelle più riposte bellezze di quel poema, e sì perchè fioriti sono de' più scelti modi della lingua, e delle più care eleganze dello stile; si che se in leggendo Dante s'impara a fare de' buoni versi, in leggendo il suo nuovo commentatore s'impara a far della buona prosa, della quale, più che de' versi, è stata, sempre, ed è tuttavia penuria grandissima in Italia. Oltre di che mi pare assai da lodarsi il P. Cesari per questa sua nuova forma d'illustrar Dante e il suo poema, ciò è per via di dialoghi, i quali fanno luogo a certi trapassi, digressioni e riposi, che tengono maravigliosamente eccitato l' intelletto, senza indurgli nè stanchezza nè noja; il che non può altramente dirsi delle note, poste a pie' della faccia o del canto, le quali disviando ad ogni pie" sospinto la mente del leggitore, in sin che s'ingegnano di esplicargli il concetto del poeta, questo gli arriva così spogliato d' ogni sua forza e colore, che è il medesimo come se gli fosse stato sempre chiuso ed oscuro. E però vediamo che gli antichi sapienti questo spiegar le cose per dialogo assai costumavano; e veramente e' par di trovarsi come in un cerchiolino di amici, dove l'uno spone la sua sentenza, l'altro similmente la sua, e chi ne dice una e chi un'altra; e per siffatto modo nella opposizione e nel conflitto de' giudizj via più si affina l'ingegno, e netto e limpido n'esce quel

vero, che debb' esser sempre il frutto delle nostre investigazioni e de' nostri studi. E per amore di questo vero, io non voglio, amabilissimo mio sig. conte, tacèrvi una cosa, che m'incontrò di notare quasi in sul principio della bella opera del P. Cesari. Parlando il poeta di quella lonza leggera e presta molto, Che di pel maculato era coperta, la quale gli occorse al cominciar dell' erta; detto del mese e dell'ora in che la scontrò soggiunge:

per via, Si ch' a bene sperar m'era cagione Di quella fera la gajetta pelle,

L'ora del tempo e la dolce stagione. Arrivato a questo passo, il P. Cesari parrebbe inchinato a spiegarlo così:,, La stagione e l'ora del dì mi davano speranza di vincere la fiera; e'l vincere mi parea veder nella pelle portatane per preda. Ma perocchè (soggiunge poco poi, come pentitosi di quel suo primo detto) questa spiegazione fu da taluno chiamata stolidezza, io lascio la cosa in ponte ". Ora sappiate, egregio sig. co. Lionardo, che quel taluno è il non mai lodato e lacrimato abbastanza co. Giulio Perticari, il quale disse non pure stolida, ma eziandio stranissima e bugiarda la sopraddetta interpretazione, ch'è pur quella del P. Lombardi, e mi pare che la ragione ch' ei ne reca non sia altro che vera il poichè

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è cosa degna di riso che la speranza d' uccidere una pantera debba venire dall' ora del mattino e dal mese d'aprile, e non piuttosto dalle buone frecce e dal solido arco e dalla mano bene esercitata alla caccia". Ma per ciò che l'illustre Pesarese ha di ragione repudiato la interpretazione del P. Lombardi, non crediate poi che egli medesimo ne producesse una, la qual fosse al tutto esente da censura; tanto è il vero che è più facile tro

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var le mende nelle opere altrui, che schivarle nelle proprie. Incomincia il Perticari dal costruire il passo controverso a questo modo: ta gajetta pelle di quella fiera, l'ora del tempo, e la dolce stagione, m'erano cagione a sperar bene, e seguita dicendo: s'intende come possano mettere speranza di bene nell' animo di uno smarrito e spaventato viaggiatore il vedere una bella bestia, e lo spuntare dell' alba dopo una notte paurosa, e la dolcezza d'un primo giorno d'aprile ". Ma come mai il Perticari nello sponer questa opinione, ha potuto dimenticar ciò, che Dante dicea poc' anzi di quella Lonza che impediva tanto il suo cam➡ mino, ch' egli fu per ritornar più volte volto? E mai da credersi che il poeta pigliasse ora per buono augurio ciò che un ciò che un momento innanzi gli era stato per poco cagione di tornare indietro?

Siffatte osservazioni non isfuggirono al sottile ingegno del sig. M. Antonio Parenti, il quale leg gendo quel passo secondo i più antichi e più si curi Codici così:

Si che a bene sperar m'era cagione Di quella fera alla gajetta pelle L'ora del tempo e la dolce stagione; Lo spiega assai pianamente: Lora del tempo e la dolce stagione m'erano cagione a sperar. bene di quella fera alla gajetta pelle. E veramente chiaro s'intende si come in un bellissimo mattino di primavera rinnovandosi, come dir, la natura, si senta anche l'uomo a crescere in cotal modo il suo vigore, e però anche Dante dovea e da quell'ora e da quel mese sentirsi a spirar nuove forze per vincere quella maledetta fiera che gli si era opposta in sul cominciar del cammino. Quell' alla gajetta pelle poi suona lo stesso che dalla gajetta pelle; si come lo adoperò Dante

medesimo, a ciò citato dal Parenti, nel cap. 16 dell' Inferno:

lo aveva una corda intorno cinta,
E con essa pensai alcuna volta

Prender la Lonza alla pelle dipinta.

Ecco adunque, la mercè dell' erudito sig. Parenti, chiaramente spiegato un passo, che avea pur fatto errare due gravi e sottili ingegni, e versatissimi in Dante, quali furono il Lombardi e il Perticari ; ed ecco non più rimanere la cosa in ponte, si come avea stimato il nostro P. Cesari, che tutto immerso ne' suoi antichi, da' quali e' ritrasse quella sua maravigliosa scienza in opera di lingua, che tutti sanno, non avrà forse letto mai quella nota del sig. Parenti nel to. I. fascicolo II. delle Memorie di religione di morale e di letteratura, che si stampano à Modena con vero profitto della scienza e della virtù.

Qui pongo fine a questa lunghissima mia lettera; e pregandovi di tenermi raccomandato al fratel vostro, al dott. Testa ed agli altri miei padroni ed amici di costà, mi vi offerisco e dedico con tutta l'anima

Di Venezia a' 26 gennaro del 1825.

Obb. Aff. Serv. ed Amico
PIER-ALESSANDRO PARAVIA.

DE INDOLE AC DOTIBUS ANTONII TRENTINI ADOLESCENTULI PAT. - Patavii, ex officina soc. tit. Minerva. MDCCCXXIV.

Breve, ma candido ed ingenuo elogietto, da elegante penna di valoroso scrittore dettato, al virtuoso ed egregio giovane Trentin, abbiamo noi inserito nel XXXI. quaderno (facc. 52) del no

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stro Giornale. Più amplamente dell' indole e delle doti di lui discorre questa Narrazione dal ch. ab. Nodari, nell' Università di Padova professore, dettata per mitigare alquanto quel dolore, che rinacerbiva il ritornare del giorno anniversario della morte del suo carissimo discepolo, col ricordarne pubblicamente le virtù. Con qual elegante nitidezza, ed aurea semplicità di stile il faccia il prof, Nodari lo può imaginare ognuno che sa con quanto studio e fervore si coltivi nel seminario di Padova (ove l'aut. e imparò e insegnò ) la lingua del Lazio, e con quanto valore ed ingegno quivi s'imitino, si emulino i classici. Con qual cuore poi, con qual commozione e tenerezza ei parli non è a dire, che il professore amava il Trentin qual tenerissimo padre virtuosissimo figlio, qual solertissimo maestro ingegnosissimo e studiosissimo discepolo. E di ciò in conferma leggansi i due brani seguenti, che più riportarne vietano i limiti del giornale, ma bastano a far ampla fede e del cuore e dell' ingegno del lodato e del lodatore:

Hujusmodi autem stipis erogationes omnes a menstrua sua pecunia faciebat, unde voluntaria ejus beneficentia exsplendescit. Quod adjiciam instar omnium sit. Quadam die ad ejus parentem se contulit vir pietate et doctrina spectatissimus (1), ut pro miserrima et pudentissima familia opem peteret. Praesens aderat puer noster, tantaque commotus est miseratione, ut, quamvis probe sciret quae soleret esse matris liberalitas, tamen ad suum privatum peculium advolavit, et argenteum nummum vindelicum voluerit maternae largitioni accedere.

(1) Vincentius Scarpa Athestinus, cujus non tam nomen quam virtus longe lateque vulgata.

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